Intervento al
Seminario
della
Fondazione
"Migrantes"
“Purtroppo
né i "laici" né i ''cattolici'' pare si siano finora resi
conto del dramma che si sta profilando. I "laici",
osteggiando in tutti i modi la Chiesa, non si accorgono di combattere
l'ispiratrice più forte e la difesa più valida della civiltà
occidentale e dei suoi valori di razionalità e di libertà:
potrebbero accorgersene troppo tardi.
I "cattolici",
lasciando sbiadire in se stessi la consapevolezza della verità
posseduta e sostituendo all'ansia apostolica il puro e semplice
dialogo a ogni costo, inconsciamente preparano (umanamente parlando)
la propria estinzione.
La speranza è che la gravità della
situazione possa a un certo momento portare a un efficace risveglio
sia della ragione sia dell'antica fede”.
I "cattolici", lasciando sbiadire in se stessi la consapevolezza della verità posseduta e sostituendo all'ansia apostolica il puro e semplice dialogo a ogni costo, inconsciamente preparano (umanamente parlando) la propria estinzione.
La speranza è che la gravità della situazione possa a un certo momento portare a un efficace risveglio sia della ragione sia dell'antica fede”.
Premessa
Dovrebbe
essere evidente a tutti quanto sia rilevante il tema
dell'immigrazione nell'Italia di oggi; ma credo sia altrettanto
innegabile l'inadeguata attenzione pastorale e lo scarso realismo con
cui finora esso è stato valutato e affrontato. Il fenomeno appare
imponente e grave; e i problemi che ne derivano - tanto per la
società civile quanto per la comunità cristiana - sono per molti
aspetti nuovi, contrassegnati da inedite complicazioni, provvisti di
una forte incidenza sulla vita delle nostre popolazioni.
I
generici allarmismi senza dubbio non servono, ma nemmeno le
banalizazioni ansiolitiche e le speranzose minimizzazioni. Né si può
sensatamente confidare in un rapido esaurirsi dell'emergenza: è
improbabile che tutto si risolva quasi autonomamente, senza positivi
interventi, e la tensione stia per sciogliersi presto quasi come un
temporale estivo, che di solito è di breve durata e non suscita
prolungate preoccupazioni.
A una interpellanza della storia
come questa si deve dunque rispondere - come, del resto, davanti a
tutti gli eventi imprevisti e non eludibili della vicenda umana -
senza panico e senza superficialità. Vanno studiate le cause e va
accuratamente indagata l'indole multiforme dell'accadimento; ma non
si può neanche attardarsi troppo nelle ricerche e nelle analisi,
senza mai arrivare a qualche provvedimento mirato e, per quel che è
possibile, efficace, perché i turbamenti e le sofferenze derivanti
dall'immigrazione sono già in atto.
I generici allarmismi senza dubbio non servono, ma nemmeno le banalizazioni ansiolitiche e le speranzose minimizzazioni. Né si può sensatamente confidare in un rapido esaurirsi dell'emergenza: è improbabile che tutto si risolva quasi autonomamente, senza positivi interventi, e la tensione stia per sciogliersi presto quasi come un temporale estivo, che di solito è di breve durata e non suscita prolungate preoccupazioni.
A una interpellanza della storia come questa si deve dunque rispondere - come, del resto, davanti a tutti gli eventi imprevisti e non eludibili della vicenda umana - senza panico e senza superficialità. Vanno studiate le cause e va accuratamente indagata l'indole multiforme dell'accadimento; ma non si può neanche attardarsi troppo nelle ricerche e nelle analisi, senza mai arrivare a qualche provvedimento mirato e, per quel che è possibile, efficace, perché i turbamenti e le sofferenze derivanti dall'immigrazione sono già in atto.
Un fenomeno che ha sorpreso lo Stato
Dobbiamo
riconoscere - e può essere un'attenuante che siamo stati tutti colti
di sorpresa.
È stato colto di sorpresa lo Stato, che dà
tuttora l'impressione di smarrimento; e pare non abbia ancora
recuperata la capacità di gestire razionalmente la situazione,
riconducendola entro le regole irrinunciabili e gli ambiti propri
dell'ordinata convivenza civile. I provvedimenti, che via via vengono
predisposti, sono eterogenei e spesso appaiono contraddittori:
denunciano la mancanza di una qualche progettualità e, più
profondamente, denotano l'assenza di una corretta e disincantata
interpretazione di ciò che sta avvenendo. Non vediamo che ci sia una
“lettura” abbastanza penetrante dei fatti, tale che sia poi in
grado di suggerire, sviluppare e sorreggere un indirizzo coerente e
saggio di comportamento.
È stato colto di sorpresa lo Stato, che dà tuttora l'impressione di smarrimento; e pare non abbia ancora recuperata la capacità di gestire razionalmente la situazione, riconducendola entro le regole irrinunciabili e gli ambiti propri dell'ordinata convivenza civile. I provvedimenti, che via via vengono predisposti, sono eterogenei e spesso appaiono contraddittori: denunciano la mancanza di una qualche progettualità e, più profondamente, denotano l'assenza di una corretta e disincantata interpretazione di ciò che sta avvenendo. Non vediamo che ci sia una “lettura” abbastanza penetrante dei fatti, tale che sia poi in grado di suggerire, sviluppare e sorreggere un indirizzo coerente e saggio di comportamento.
Ha sorpreso anche la comunità ecclesiale
Sono
state colte di sorpresa anche le comunità cristiane, ammirevoli in
molti casi nel prodigarsi prontamente ad alleviare disagi e pene, ma
sprovviste finora di una visione non astratta, non settoriale e
abbastanza concorde, in grado di ispirare valutazioni e intenti
operativi che tengano conto di tutte le implicazioni degli
avvenimenti e di tutti gli aspetti della questione. Le generiche
esaltazioni della solidarietà e del primato della carità evangelica
- che in sé e in linea di principio sono legittime e anzi doverose -
si dimostrano più generose e ben intenzionate che utili, se
rifuggono dal commisurarsi con la complessità del problema e la
ruvidezza della realtà effettuale.
Anche nella nostra
esplicita consapevolezza di pastori, non si ha l'impressione che il
fenomeno dell'immigrazione negli ultimi quindici anni - nel corso dei
quali esso si è amplificato e acutizzato - sia stato vivo e pungente
a misura della sua oggettiva gravità.
Abbiamo avuto in
merito due estesi documenti: nel 1990 la Nota pastorale della
Commissione ecclesiale “Giustizia e pace” dal titolo: Uomini di
culture diverse: dal conflitto alla solidarietà; e nel 1993 gli
Orientamenti pastorali della Commissione ecclesiale per le migrazioni
dal titolo: Ero forestiero e mi avete ospitato. Ambedue i testi,
molto estesi e analitici, sono più che altro (e doverosamente) tesi
a costruire e a diffondere nella cristianità una “cultura
dell'accoglienza”. Manca invece un po' di realismo nel vaglio delle
difficoltà e dei problemi; e soprattutto appare insufficiente il
risalto dato alla missione evangelizzatrice della Chiesa nei
confronti di tutti gli uomini, e quindi anche di coloro che vengono a
dimorare da noi.
Anche nella nostra esplicita consapevolezza di pastori, non si ha l'impressione che il fenomeno dell'immigrazione negli ultimi quindici anni - nel corso dei quali esso si è amplificato e acutizzato - sia stato vivo e pungente a misura della sua oggettiva gravità.
Abbiamo avuto in merito due estesi documenti: nel 1990 la Nota pastorale della Commissione ecclesiale “Giustizia e pace” dal titolo: Uomini di culture diverse: dal conflitto alla solidarietà; e nel 1993 gli Orientamenti pastorali della Commissione ecclesiale per le migrazioni dal titolo: Ero forestiero e mi avete ospitato. Ambedue i testi, molto estesi e analitici, sono più che altro (e doverosamente) tesi a costruire e a diffondere nella cristianità una “cultura dell'accoglienza”. Manca invece un po' di realismo nel vaglio delle difficoltà e dei problemi; e soprattutto appare insufficiente il risalto dato alla missione evangelizzatrice della Chiesa nei confronti di tutti gli uomini, e quindi anche di coloro che vengono a dimorare da noi.
Gli auspici del pastore
Vorrei
adesso dare consistenza al mio cordiale saluto ai partecipanti di
questo seminario, esprimendo semplicemente alcuni auspici: nascono
dalla riflessione e dal cuore di un vescovo, rivelano più che altro
le sue sollecitudini apostoliche e sono formulati nel rispetto di
quanti - studiosi, operatori sociali, pubbliche autorità - sono
chiamati in causa dalla necessità di dare rapida e sufficiente
risposta all'emergenza che qui prende il nostro interesse.
Non
dovrebbe essere inutile che agli esami e alle considerazioni di
natura politica, economica, antropologica, culturale dei competenti
(e prestando ad essi la dovuta attenzione) si aggiunga anche la
prospettiva di chi - essendo a tutti gli effetti cittadino italiano e
avendo l'originale presunzione di poter esporre anche in quanto tale
il proprio parere - si sente soprattutto responsabile del presente e
dell'avvenire del gregge di Cristo che gli è stato affidato; e, tra
l'altro, non può mai dimenticare l'inquietante domanda che il
Signore Gesù ha lasciato senza risposta: “Il Figlio dell'uomo,
quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8).
Non dovrebbe essere inutile che agli esami e alle considerazioni di natura politica, economica, antropologica, culturale dei competenti (e prestando ad essi la dovuta attenzione) si aggiunga anche la prospettiva di chi - essendo a tutti gli effetti cittadino italiano e avendo l'originale presunzione di poter esporre anche in quanto tale il proprio parere - si sente soprattutto responsabile del presente e dell'avvenire del gregge di Cristo che gli è stato affidato; e, tra l'altro, non può mai dimenticare l'inquietante domanda che il Signore Gesù ha lasciato senza risposta: “Il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?” (Lc 18,8).
Gli auspici per lo Stato e la società civile
L'auspicio
sostanziale che crediamo di dover formulare per lo Stato e la società
civile, è che si chiariscano e siano comunemente accolte alcune
persuasioni previe, sicché ci si accosti al fenomeno
dell'immigrazione provvisti di una “cultura” plausibile
largamente condivisa.
È incontestabile, per esempio, il
principio che a ogni popolo debbano essere riconosciuti gli spazi, i
mezzi, le condizioni che gli consentano non solo di sopravvivere ma
anche di esistere e svilupparsi secondo quanto è richiesto dalla
dignità umana. Gli organismi internazionali sono sollecitati a farsi
carico delle iniziative atte a conseguire questa meta e non possono
perdere di vista questo necessario ideale di giustizia distributiva
generale; e tutto ciò vale - in modo proporzionato e secondo le
reali possibilità - anche per i singoli stati.
Ma non se ne
può dedurre - se si vuol essere davvero “laici” oltre tutti gli
imperativi ideologici - che una nazione non abbia il diritto di
gestire e regolare l'afflusso di gente che vuol entrare a ogni costo.
Tanto meno se ne può dedurre che abbia il dovere di aprire
indiscriminatamente le proprie frontiere.
Bisogna piuttosto
dire che ogni auspicabile progetto di pacifico inserimento suppone ed
esige che gli accessi siano vigilati e regolamentati. È tra l'altro
davanti agli occhi di tutti che gli ingressi arbitrari - quando hanno
fama di essere abbastanza agevolmente effettuabili - determinano
fatalmente da un lato il dilatarsi incontrollato della miseria e
della disperazione (e spesso pericolose insorgenze di intolleranza e
di rifiuto assoluto), dall'altro il prosperare di un'industria
criminale di sfruttamento di chi aspira a varcare clandestinamente i
confini.
È incontestabile, per esempio, il principio che a ogni popolo debbano essere riconosciuti gli spazi, i mezzi, le condizioni che gli consentano non solo di sopravvivere ma anche di esistere e svilupparsi secondo quanto è richiesto dalla dignità umana. Gli organismi internazionali sono sollecitati a farsi carico delle iniziative atte a conseguire questa meta e non possono perdere di vista questo necessario ideale di giustizia distributiva generale; e tutto ciò vale - in modo proporzionato e secondo le reali possibilità - anche per i singoli stati.
Ma non se ne può dedurre - se si vuol essere davvero “laici” oltre tutti gli imperativi ideologici - che una nazione non abbia il diritto di gestire e regolare l'afflusso di gente che vuol entrare a ogni costo. Tanto meno se ne può dedurre che abbia il dovere di aprire indiscriminatamente le proprie frontiere.
Bisogna piuttosto dire che ogni auspicabile progetto di pacifico inserimento suppone ed esige che gli accessi siano vigilati e regolamentati. È tra l'altro davanti agli occhi di tutti che gli ingressi arbitrari - quando hanno fama di essere abbastanza agevolmente effettuabili - determinano fatalmente da un lato il dilatarsi incontrollato della miseria e della disperazione (e spesso pericolose insorgenze di intolleranza e di rifiuto assoluto), dall'altro il prosperare di un'industria criminale di sfruttamento di chi aspira a varcare clandestinamente i confini.
Progetti realistici complessivi
Ciò
che dobbiamo augurare al nostro Stato e alla società italiana è che
si arrivi presto a un serio dominio della situazione, in modo che il
massiccio arrivo di stranieri nel nostro paese sia disciplinato e
guidato secondo progetti concreti e realistici di inserimento che
mirino al vero bene di tutti, sia dei nuovi arrivati sia delle nostre
popolazioni.
Tali progetti dovrebbero contemplare tanto la
possibilità di un lavoro regolarmente remunerato quanto la
disponibilità di alloggi dignitosi non gratuiti: per questa strada
si potrà arrivare a un sicuro innesto entro il nostro organismo
sociale, senza discriminazioni e senza privilegi.
Chi viene
da noi deve sapere subito che gli sarà richiesto, come necessaria
contropartita dell'ospitalità, il rispetto di tutte le norme di
convivenza che sono in vigore da noi, comprese quelle fiscali.
Diversamente non si farebbe che suscitare e favorire perniciose crisi
di rigetto, ciechi atteggiamenti di xenofobia e l'insorgere di
deplorevoli intolleranze razziali.
Tali progetti dovrebbero contemplare tanto la possibilità di un lavoro regolarmente remunerato quanto la disponibilità di alloggi dignitosi non gratuiti: per questa strada si potrà arrivare a un sicuro innesto entro il nostro organismo sociale, senza discriminazioni e senza privilegi.
Chi viene da noi deve sapere subito che gli sarà richiesto, come necessaria contropartita dell'ospitalità, il rispetto di tutte le norme di convivenza che sono in vigore da noi, comprese quelle fiscali. Diversamente non si farebbe che suscitare e favorire perniciose crisi di rigetto, ciechi atteggiamenti di xenofobia e l'insorgere di deplorevoli intolleranze razziali.
Criteri attuativi
La
pratica attuazione di questi progetti obbedirà necessariamente a
criteri che saranno anche economici: l'Italia ha bisogno di forze
lavorative che non riesce più a trovare nell'ambito della sua
popolazione.
A questo proposito, dovrebbero essere tutti
ormai persuasi di quanto sia stata insipiente la linea perseguita
negli ultimi quarant'anni, con l'ossessivo terrorismo culturale
antidemografico e con l'assenza di ogni correttivo legislativo e
politico che ponesse qualche rimedio all'egoistica e stolta
denatalità, da molto tempo ai vertici delle statistiche mondiali.
Tutto questo nonostante l'esempio contrario delle nazioni d'Europa
più accorte, più lungimiranti, più civili, che non hanno esitato a
prendere in questo campo intelligenti e realistici provvedimenti.
A questo proposito, dovrebbero essere tutti ormai persuasi di quanto sia stata insipiente la linea perseguita negli ultimi quarant'anni, con l'ossessivo terrorismo culturale antidemografico e con l'assenza di ogni correttivo legislativo e politico che ponesse qualche rimedio all'egoistica e stolta denatalità, da molto tempo ai vertici delle statistiche mondiali. Tutto questo nonostante l'esempio contrario delle nazioni d'Europa più accorte, più lungimiranti, più civili, che non hanno esitato a prendere in questo campo intelligenti e realistici provvedimenti.
La salvaguardia dell'identità nazionale
Ma
i criteri di cui si parla non potranno essere soltanto economici e
previdenziali.
Una consistente immissione di stranieri nella
nostra penisola è accettabile e può riuscire anche benefica, purché
ci si preoccupi seriamente di salvaguardare la fisionomia propria
della nazione. L'Italia non è una landa deserta o semidisabitata,
senza storia, senza tradizioni vive e vitali, senza una
inconfondibile fisionomia culturale e spirituale, da popolare
indiscriminatamente, come se non ci fosse un patrimonio tipico di
umanesimo e di civiltà che non deve andare perduto.
Sotto
questo profilo, uno Stato davvero “laico” - che cioè abbia di
mira non il trionfo di qualche ideologia, ma il vero bene degli
uomini e delle donne sui quali esercita la sua attività di
amministrazione e di governo, e voglia loro preparare con accortezza
un desiderabile futuro - dovrebbe avere tra le sue preoccupazioni
primarie quella di favorire la pacifica integrazione delle genti
(come si è già storicamente verificato nell'incontro tra le
popolazioni latine e quelle germaniche sopravvenute) o quanto meno
una coesistenza non conflittuale; una compresenza e una coesistenza
che comunque non conducano a disperdere la nostra ricchezza ideale o
a snaturare la nostra specifica identità.
Bisogna perciò
concretamente operare perché coloro che intendono stabilirsi da noi
in modo definitivo “si inculturino” nella realtà spirituale,
morale, giuridica del nostro paese, e vengano posti in condizione di
conoscere al meglio le tradizioni letterarie, estetiche, religiose
della peculiare umanità della quale sono venuti a far parte.
A
questo fine, le concrete condizioni di partenza degli immigrati non
sono ugualmente propizie; e le autorità non dovrebbero trascurare
questo dato della questione.
In una prospettiva realistica,
andrebbero preferite (a parità di condizioni, soprattutto per quel
che si riferisce all'onestà delle intenzioni e al corretto
comportamento) le popolazioni cattoliche o almeno cristiane, alle
quali l'inserimento risulta enormemente agevolato (per esempio i
latino-americani, i filippini, gli eritrei, i provenienti da molti
paesi dell'Est Europa, eccetera); poi gli asiatici (come i cinesi e i
coreani), che hanno dimostrato di sapersi integrare con buona
facilità, pur conservando i tratti distintivi della loro cultura.
Questa linea di condotta - essendo “laicamente” motivata - non
dovrebbe lasciarsi condizionare o disanimare nemmeno dalle possibili
critiche sollevate dall'ambiente ecclesiastico o dalle organizzazioni
cattoliche.
Come si vede, si propone qui semplicemente il
“criterio dell'inserimento più agevole e meno costoso”: un
criterio totalmente ed esplicitamente “laico”, a proposito del
quale evocare gli spettri del razzismo, della xenofobia, della
discriminazione religiosa, dell'ingerenza clericale e perfino della
violazione della Costituzione, sarebbe un malinteso davvero mirabile
e singolare; il quale, se effettivamente si verificasse, ci
insinuerebbe qualche dubbio sulla perspicacia degli opinionisti e dei
politici italiani.
Una consistente immissione di stranieri nella nostra penisola è accettabile e può riuscire anche benefica, purché ci si preoccupi seriamente di salvaguardare la fisionomia propria della nazione. L'Italia non è una landa deserta o semidisabitata, senza storia, senza tradizioni vive e vitali, senza una inconfondibile fisionomia culturale e spirituale, da popolare indiscriminatamente, come se non ci fosse un patrimonio tipico di umanesimo e di civiltà che non deve andare perduto.
Sotto questo profilo, uno Stato davvero “laico” - che cioè abbia di mira non il trionfo di qualche ideologia, ma il vero bene degli uomini e delle donne sui quali esercita la sua attività di amministrazione e di governo, e voglia loro preparare con accortezza un desiderabile futuro - dovrebbe avere tra le sue preoccupazioni primarie quella di favorire la pacifica integrazione delle genti (come si è già storicamente verificato nell'incontro tra le popolazioni latine e quelle germaniche sopravvenute) o quanto meno una coesistenza non conflittuale; una compresenza e una coesistenza che comunque non conducano a disperdere la nostra ricchezza ideale o a snaturare la nostra specifica identità.
Bisogna perciò concretamente operare perché coloro che intendono stabilirsi da noi in modo definitivo “si inculturino” nella realtà spirituale, morale, giuridica del nostro paese, e vengano posti in condizione di conoscere al meglio le tradizioni letterarie, estetiche, religiose della peculiare umanità della quale sono venuti a far parte.
A questo fine, le concrete condizioni di partenza degli immigrati non sono ugualmente propizie; e le autorità non dovrebbero trascurare questo dato della questione.
In una prospettiva realistica, andrebbero preferite (a parità di condizioni, soprattutto per quel che si riferisce all'onestà delle intenzioni e al corretto comportamento) le popolazioni cattoliche o almeno cristiane, alle quali l'inserimento risulta enormemente agevolato (per esempio i latino-americani, i filippini, gli eritrei, i provenienti da molti paesi dell'Est Europa, eccetera); poi gli asiatici (come i cinesi e i coreani), che hanno dimostrato di sapersi integrare con buona facilità, pur conservando i tratti distintivi della loro cultura. Questa linea di condotta - essendo “laicamente” motivata - non dovrebbe lasciarsi condizionare o disanimare nemmeno dalle possibili critiche sollevate dall'ambiente ecclesiastico o dalle organizzazioni cattoliche.
Come si vede, si propone qui semplicemente il “criterio dell'inserimento più agevole e meno costoso”: un criterio totalmente ed esplicitamente “laico”, a proposito del quale evocare gli spettri del razzismo, della xenofobia, della discriminazione religiosa, dell'ingerenza clericale e perfino della violazione della Costituzione, sarebbe un malinteso davvero mirabile e singolare; il quale, se effettivamente si verificasse, ci insinuerebbe qualche dubbio sulla perspicacia degli opinionisti e dei politici italiani.
Il caso dei musulmani
Se
non si vuol eludere o censurare tale realistica attenzione, è
evidente che il caso dei musulmani vada trattato a parte. Ed è
sperabile che i responsabili della cosa pubblica non temano di
affrontarlo a occhi aperti e senza illusioni.
Gli islamici -
nella stragrande maggioranza e con qualche eccezione - vengono da noi
risoluti a restare estranei alla nostra “umanità”, individuale e
associata, in ciò che ha di più essenziale, di più prezioso, di
più “laicamente” irrinunciabile: più o meno dichiaratamente,
essi vengono a noi ben decisi a rimanere sostanzialmente “diversi”,
in attesa di farci diventare tutti sostanzialmente come loro.
Hanno
una forma di alimentazione diversa (e fin qui poco male), un diverso
giorno festivo, un diritto di famiglia incompatibile col nostro, una
concezione della donna lontanissima dalla nostra (fino a praticare la
poligamia). Soprattutto hanno una visione rigorosamente integralista
della vita pubblica, sicché la perfetta immedesimazione tra
religione e politica fa parte della loro fede indubitabile e
irrinunciabile, anche se aspettano prudentemente a farla valere di
diventare preponderanti. Non sono dunque gli uomini di Chiesa, ma gli
stati occidentali moderni a dover far bene i loro conti a questo
riguardo.
Va anzi detto qualcosa di più: se il nostro Stato
crede sul serio nell'importanza delle libertà civili (tra cui quella
religiosa) e nei princìpi democratici, dovrebbe adoperarsi perché
essi siano sempre più diffusi, accolti e praticati a tutte le
latitudini. Un piccolo strumento per raggiungere questo scopo è
quello della richiesta che venga data una “reciprocità” non
puramente verbale da parte degli stati di origine degli
immigrati.
Scrive a questo proposito la Nota CEI del 1993:
“In diversi paesi islamici è quasi impossibile aderire e praticare
liberamente il cristianesimo. Non esistono luoghi di culto, non sono
consentite manifestazioni religiose fuori dell'islam, né
organizzazioni ecclesiali per quanto minime. Si pone così il
difficile problema della reciprocità. È questo un problema che non
interessa solo la Chiesa, ma anche la società civile e politica, il
mondo della cultura e delle stesse relazioni internazionali. Da parte
sua il papa è instancabile nel chiedere a tutti il rispetto del
diritto fondamentale della libertà religiosa” (n. 34). Ma -
diciamo noi - chiedere serve a poco, anche se il papa non può fare
di più.
Per quanto possa apparire estraneo alla nostra
mentalità e persino paradossale, il solo modo efficace e non
velleitario di promuovere il “principio di reciprocità” da parte
di uno Stato davvero “laico” e davvero interessato alla
diffusione delle libertà umane, sarebbe quello di consentire in
Italia per i musulmani, sul piano delle istituzioni da autorizzare,
solo ciò che nei paesi musulmani è effettivamente consentito per
gli altri.
Gli islamici - nella stragrande maggioranza e con qualche eccezione - vengono da noi risoluti a restare estranei alla nostra “umanità”, individuale e associata, in ciò che ha di più essenziale, di più prezioso, di più “laicamente” irrinunciabile: più o meno dichiaratamente, essi vengono a noi ben decisi a rimanere sostanzialmente “diversi”, in attesa di farci diventare tutti sostanzialmente come loro.
Hanno una forma di alimentazione diversa (e fin qui poco male), un diverso giorno festivo, un diritto di famiglia incompatibile col nostro, una concezione della donna lontanissima dalla nostra (fino a praticare la poligamia). Soprattutto hanno una visione rigorosamente integralista della vita pubblica, sicché la perfetta immedesimazione tra religione e politica fa parte della loro fede indubitabile e irrinunciabile, anche se aspettano prudentemente a farla valere di diventare preponderanti. Non sono dunque gli uomini di Chiesa, ma gli stati occidentali moderni a dover far bene i loro conti a questo riguardo.
Va anzi detto qualcosa di più: se il nostro Stato crede sul serio nell'importanza delle libertà civili (tra cui quella religiosa) e nei princìpi democratici, dovrebbe adoperarsi perché essi siano sempre più diffusi, accolti e praticati a tutte le latitudini. Un piccolo strumento per raggiungere questo scopo è quello della richiesta che venga data una “reciprocità” non puramente verbale da parte degli stati di origine degli immigrati.
Scrive a questo proposito la Nota CEI del 1993: “In diversi paesi islamici è quasi impossibile aderire e praticare liberamente il cristianesimo. Non esistono luoghi di culto, non sono consentite manifestazioni religiose fuori dell'islam, né organizzazioni ecclesiali per quanto minime. Si pone così il difficile problema della reciprocità. È questo un problema che non interessa solo la Chiesa, ma anche la società civile e politica, il mondo della cultura e delle stesse relazioni internazionali. Da parte sua il papa è instancabile nel chiedere a tutti il rispetto del diritto fondamentale della libertà religiosa” (n. 34). Ma - diciamo noi - chiedere serve a poco, anche se il papa non può fare di più.
Per quanto possa apparire estraneo alla nostra mentalità e persino paradossale, il solo modo efficace e non velleitario di promuovere il “principio di reciprocità” da parte di uno Stato davvero “laico” e davvero interessato alla diffusione delle libertà umane, sarebbe quello di consentire in Italia per i musulmani, sul piano delle istituzioni da autorizzare, solo ciò che nei paesi musulmani è effettivamente consentito per gli altri.
Cattolicesimo “religione nazionale storica”
Quanto
ai rapporti da intrattenere con le diverse religioni, che sono
presenti tra noi in conseguenza dell’ immigrazione, sarà bene che
nessuno ignori o dimentichi che il cattolicesimo - che
indiscutibilmente non è più la “religione ufficiale dello Stato”
- rimane nondimeno la “religione storica” della nazione italiana,
la fonte precipua della sua identità, l'ispirazione determinante
delle nostre più vere grandezze.
Sicché è del tutto
incongruo assimilarlo socialmente alle altre forme religiose o
culturali, alle quali dovrà essere assicurata piena e autentica
libertà di esistere e di operare, senza però che questo comporti un
livellamento innaturale o addirittura un annichilimento dei più alti
valori della nostra civiltà.
Va anche detto che è una
singolare visione della democrazia il far coincidere il rispetto
degli individui e delle minoranze con il non rispetto della
maggioranza e l'eliminazione di ciò che è acquisito e tradizionale
in una comunità umana. Dobbiamo qui segnalare purtroppo casi sempre
più numerosi di questa, che è una “intolleranza sostanziale”,
per esempio quando nelle scuole si aboliscono i segni e gli usi
cattolici per la presenza di alcuni di altre fedi.
Sicché è del tutto incongruo assimilarlo socialmente alle altre forme religiose o culturali, alle quali dovrà essere assicurata piena e autentica libertà di esistere e di operare, senza però che questo comporti un livellamento innaturale o addirittura un annichilimento dei più alti valori della nostra civiltà.
Va anche detto che è una singolare visione della democrazia il far coincidere il rispetto degli individui e delle minoranze con il non rispetto della maggioranza e l'eliminazione di ciò che è acquisito e tradizionale in una comunità umana. Dobbiamo qui segnalare purtroppo casi sempre più numerosi di questa, che è una “intolleranza sostanziale”, per esempio quando nelle scuole si aboliscono i segni e gli usi cattolici per la presenza di alcuni di altre fedi.
Alle comunità ecclesiali
Che
cosa diremo di illuminante e di pratico alle comunità cristiane, che
di questi tempi sono per la verità afflitte da poca chiarezza di
idee e da molte incertezze comportamentali?
In primo luogo,
deve essere manifesto a tutti che non è per sé compito della Chiesa
come tale risolvere ogni problema sociale che la storia di volta in
volta ci presenta. Le nostre comunità e i nostri fedeli non devono
perciò nutrire complessi di colpa a causa delle emergenze anche
imperiose che essi con le loro forze non riescono ad appianare.
Sarebbe un implicito, ma comunque intollerabile e grave
“integralismo” il credere che le aggregazioni ecclesiali e i
cattolici possano essere responsabilizzati di tutto.
Qualche
volta i malintesi sono involontariamente propiziati dalle pubbliche
autorità che, quando non sanno che pesci pigliare, fanno appello
alle nostre supplenze e fatalmente ci coinvolgono (dando in tal modo
implicito riconoscimento che le organizzazioni ecclesiali sono tra
quelle che in Italia riescono ancora a funzionare).
In primo luogo, deve essere manifesto a tutti che non è per sé compito della Chiesa come tale risolvere ogni problema sociale che la storia di volta in volta ci presenta. Le nostre comunità e i nostri fedeli non devono perciò nutrire complessi di colpa a causa delle emergenze anche imperiose che essi con le loro forze non riescono ad appianare. Sarebbe un implicito, ma comunque intollerabile e grave “integralismo” il credere che le aggregazioni ecclesiali e i cattolici possano essere responsabilizzati di tutto.
Qualche volta i malintesi sono involontariamente propiziati dalle pubbliche autorità che, quando non sanno che pesci pigliare, fanno appello alle nostre supplenze e fatalmente ci coinvolgono (dando in tal modo implicito riconoscimento che le organizzazioni ecclesiali sono tra quelle che in Italia riescono ancora a funzionare).
L'annuncio del Vangelo e l'osservanza della carità
Compito
primario e indiscutibile delle comunità ecclesiali è l'annuncio del
Vangelo e l'osservanza del comando dell'amore. Di fronte a un uomo in
difficoltà - quale che sia la sua razza, la sua cultura, la sua
religione, la legalità della sua presenza - i discepoli di Gesù
hanno il dovere di amarlo operosamente e di aiutarlo a misura delle
loro concrete possibilità.
Il Signore ci chiederà conto
della genuinità e dell'ampiezza della nostra carità e ci domanderà
se abbiamo fatto tutto il possibile. Su questo però - sarà bene che
nessuno se lo dimentichi - noi siamo tenuti a rispondere non ad
altri, ma solo al Signore.
Il Signore ci chiederà conto della genuinità e dell'ampiezza della nostra carità e ci domanderà se abbiamo fatto tutto il possibile. Su questo però - sarà bene che nessuno se lo dimentichi - noi siamo tenuti a rispondere non ad altri, ma solo al Signore.
Non surrogabilità dell'evangelizzazione
Dovere
statutario della Chiesa Cattolica e compito di ogni battezzato è di
far conoscere esplicitamente Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio morto
per noi e risorto, oggi vivo e Signore dell'universo, unico Salvatore
di tutti.
Tale missione può essere coadiuvata ma non
surrogata dall'attività assistenziale che riusciremo a offrire ai
nostri fratelli. Suppone la nostra attitudine al dialogo sincero,
aperto, rispettoso con tutti, ma non può risolversi nel solo
dialogo. È favorita dalla conoscenza oggettiva delle posizioni
altrui, ma si avvera soltanto nella conoscenza di Cristo cui noi
riusciamo a portare i nostri fratelli, che sventuratamente ancora non
ne sono gratificati.
Inoltre l'azione evangelizzatrice è di
sua natura universale e non tollera deliberate esclusioni di
destinatari. Il Signore non ci ha detto: “Predicate il Vangelo ad
ogni creatura, tranne i musulmani, gli ebrei e il Dalai Lama” (cf
Mc 16,15). Chi ci contestasse la legittimità o anche solo
l'opportunità di questo annuncio illimitato e inderogabile,
peccherebbe di intolleranza nei nostri confronti: ci proibirebbe
infatti di essere quello che siamo, vale a dire “cristiani”; cioè
obbedienti alla chiara ed esplicita volontà di Cristo.
È
molto importante che tutti i cattolici si rendano conto di questa
loro indeclinabile responsabilità. E per essere buoni
evangelizzatori, persuasi dentro di sì e persuasivi nei confronti
degli altri, essi devono crescere sempre più nella intelligenza e
nella gioiosa ammirazione degli immensi tesori di verità, di
sapienza, di consolante speranza che hanno la fortuna di possedere: è
una effusione sovrumana, anzi divinizzante di luce, assolutamente
inconfrontabile con i pur preziosi barlumi offerti dalle varie
religioni e dall'Islam; e noi siamo chiamati a proporla
appassionatamente e instancabilmente a tutti i figli di Adamo.
Tale missione può essere coadiuvata ma non surrogata dall'attività assistenziale che riusciremo a offrire ai nostri fratelli. Suppone la nostra attitudine al dialogo sincero, aperto, rispettoso con tutti, ma non può risolversi nel solo dialogo. È favorita dalla conoscenza oggettiva delle posizioni altrui, ma si avvera soltanto nella conoscenza di Cristo cui noi riusciamo a portare i nostri fratelli, che sventuratamente ancora non ne sono gratificati.
Inoltre l'azione evangelizzatrice è di sua natura universale e non tollera deliberate esclusioni di destinatari. Il Signore non ci ha detto: “Predicate il Vangelo ad ogni creatura, tranne i musulmani, gli ebrei e il Dalai Lama” (cf Mc 16,15). Chi ci contestasse la legittimità o anche solo l'opportunità di questo annuncio illimitato e inderogabile, peccherebbe di intolleranza nei nostri confronti: ci proibirebbe infatti di essere quello che siamo, vale a dire “cristiani”; cioè obbedienti alla chiara ed esplicita volontà di Cristo.
È molto importante che tutti i cattolici si rendano conto di questa loro indeclinabile responsabilità. E per essere buoni evangelizzatori, persuasi dentro di sì e persuasivi nei confronti degli altri, essi devono crescere sempre più nella intelligenza e nella gioiosa ammirazione degli immensi tesori di verità, di sapienza, di consolante speranza che hanno la fortuna di possedere: è una effusione sovrumana, anzi divinizzante di luce, assolutamente inconfrontabile con i pur preziosi barlumi offerti dalle varie religioni e dall'Islam; e noi siamo chiamati a proporla appassionatamente e instancabilmente a tutti i figli di Adamo.
Approccio realisticamente differenziato
Le
comunità cristiane - in funzione di un approccio sapiente e
realistico al fenomeno dell'immigrazione - non possono non valutare
attentamente i singoli e i gruppi, in modo da assumere poi gli
atteggiamenti più pertinenti e più opportuni.
Agli
immigrati cattolici - quale che sia la loro lingua e il colore della
loro pelle - bisogna far sentire nella maniera più efficace che
all'interno della Chiesa non ci sono “stranieri”: essi a pieno
titolo entrano a far parte della nostra famiglia di credenti, e vanno
accolti con schietto spirito di fraternità.
Quando sono
presenti in numero rilevante e in aggregazioni omogenee consistenti,
andranno sinceramente incoraggiati a conservare la loro tipica
tradizione cattolica, che sarà oggetto di affettuosa attenzione da
parte di tutti. La compresenza di queste diverse “forme” di vita
ecclesiale e di culto autentico costituirà senza dubbio un
arricchimento spirituale per l'intera cristianità.
Ai
cristiani delle antiche Chiese orientali, che non sono ancora nella
piena comunione con la Sede di Pietro, esprimeremo simpatia e
rispetto. E, in conformità agli eventuali accordi generali e secondo
l'opportunità, potremo favorirli anche dell'uso di qualche nostra
chiesa per le loro celebrazioni.
Gli appartenenti alle
religioni non cristiane vanno amati e, quanto è possibile, aiutati
nelle loro necessità. Da alcuni di loro - segnatamente dai musulmani
- possiamo tutti imparare la fedeltà ai loro esercizi rituali e ai
loro momenti di preghiera, ma non tocca a noi prestare positive
collaborazioni alla loro pratica religiosa.
A questo
proposito, è utile richiamare quanto è disposto dalla Nota CEI del
1993, già citata: “Le comunità cristiane, per evitare inutili
fraintendimenti e confusioni pericolose, non devono mettere a
disposizione, per incontri religiosi di fedi non cristiane, chiese,
cappelle e locali riservati al culto cattolico, come pure ambienti
destinati alle attività parrocchiali” (n. 34).
Come si
può capire dalla complessità di questa problematica, non è
ammissibile che essa sia affrontata “in toto” dalla “Caritas
italiana”, che ha un ben delimitato campo di valutazione e di
interesse. Sui temi della evangelizzazione, della identità cristiana
del nostro popolo, delle concrete difficoltà pastorali - e dunque
sulla questione della immigrazione globalmente intesa - non
dovrebbero esserci deleghe a nessun particolare organismo
ecclesiale.
Agli immigrati cattolici - quale che sia la loro lingua e il colore della loro pelle - bisogna far sentire nella maniera più efficace che all'interno della Chiesa non ci sono “stranieri”: essi a pieno titolo entrano a far parte della nostra famiglia di credenti, e vanno accolti con schietto spirito di fraternità.
Quando sono presenti in numero rilevante e in aggregazioni omogenee consistenti, andranno sinceramente incoraggiati a conservare la loro tipica tradizione cattolica, che sarà oggetto di affettuosa attenzione da parte di tutti. La compresenza di queste diverse “forme” di vita ecclesiale e di culto autentico costituirà senza dubbio un arricchimento spirituale per l'intera cristianità.
Ai cristiani delle antiche Chiese orientali, che non sono ancora nella piena comunione con la Sede di Pietro, esprimeremo simpatia e rispetto. E, in conformità agli eventuali accordi generali e secondo l'opportunità, potremo favorirli anche dell'uso di qualche nostra chiesa per le loro celebrazioni.
Gli appartenenti alle religioni non cristiane vanno amati e, quanto è possibile, aiutati nelle loro necessità. Da alcuni di loro - segnatamente dai musulmani - possiamo tutti imparare la fedeltà ai loro esercizi rituali e ai loro momenti di preghiera, ma non tocca a noi prestare positive collaborazioni alla loro pratica religiosa.
A questo proposito, è utile richiamare quanto è disposto dalla Nota CEI del 1993, già citata: “Le comunità cristiane, per evitare inutili fraintendimenti e confusioni pericolose, non devono mettere a disposizione, per incontri religiosi di fedi non cristiane, chiese, cappelle e locali riservati al culto cattolico, come pure ambienti destinati alle attività parrocchiali” (n. 34).
Come si può capire dalla complessità di questa problematica, non è ammissibile che essa sia affrontata “in toto” dalla “Caritas italiana”, che ha un ben delimitato campo di valutazione e di interesse. Sui temi della evangelizzazione, della identità cristiana del nostro popolo, delle concrete difficoltà pastorali - e dunque sulla questione della immigrazione globalmente intesa - non dovrebbero esserci deleghe a nessun particolare organismo ecclesiale.
Conclusione
In
un'intervista di una decina d'anni fa, mi è stato chiesto con molto
candore e con invidiabile ottimismo: “Ritiene anche Lei che
l'Europa o sarà cristiana o non sarà?”. Mi pare che la mia
risposta di allora possa ben servire alla conclusione del mio
intervento di oggi.
Io penso - dicevo - che l'Europa o
ridiventerà cristiana o diventerà musulmana. Ciò che mi pare senza
avvenire è la “cultura del niente”, della libertà senza limiti
e senza contenuti, dello scetticismo vantato come conquista
intellettuale, che sembra essere l'atteggiamento largamente dominante
nei popoli europei, più o meno tutti ricchi di mezzi e poveri di
verità.
Questa “cultura del niente” (sorretta
dall'edonismo e dalla insaziabilità libertaria) non sarà in grado
di reggere all'assalto ideologico dell'Islam, che non mancherà: solo
la riscoperta dell'“avvenimento cristiano” come unica salvezza
per l'uomo - e quindi solo una decisa risurrezione dell'antica anima
dell'Europa - potrà offrire un esito diverso a questo inevitabile
confronto.
Purtroppo né i “laici” né i “cattolici”
pare si siano finora resi conto del dramma che si sta profilando. I
“laici”, osteggiando in tutti i modi la Chiesa, non si accorgono
di combattere l'ispiratrice più forte e la difesa più valida della
civiltà occidentale e dei suoi valori di razionalità e di libertà:
potrebbero accorgersene troppo tardi. I “cattolici”, lasciando
sbiadire in se stessi la consapevolezza della verità posseduta e
sostituendo all'ansia apostolica il puro e semplice dialogo a ogni
costo, inconsciamente preparano (umanamente parlando) la propria
estinzione.
La speranza è che la gravità della situazione
possa a un certo momento portare a un efficace risveglio sia della
ragione sia dell'antica fede.
È il nostro augurio, il
nostro impegno, la nostra preghiera.
Bologna,
30 settembre 2000
GIACOMO
CARD. BIFFI
arcivescovo
di Bologna
Io penso - dicevo - che l'Europa o ridiventerà cristiana o diventerà musulmana. Ciò che mi pare senza avvenire è la “cultura del niente”, della libertà senza limiti e senza contenuti, dello scetticismo vantato come conquista intellettuale, che sembra essere l'atteggiamento largamente dominante nei popoli europei, più o meno tutti ricchi di mezzi e poveri di verità.
Questa “cultura del niente” (sorretta dall'edonismo e dalla insaziabilità libertaria) non sarà in grado di reggere all'assalto ideologico dell'Islam, che non mancherà: solo la riscoperta dell'“avvenimento cristiano” come unica salvezza per l'uomo - e quindi solo una decisa risurrezione dell'antica anima dell'Europa - potrà offrire un esito diverso a questo inevitabile confronto.
Purtroppo né i “laici” né i “cattolici” pare si siano finora resi conto del dramma che si sta profilando. I “laici”, osteggiando in tutti i modi la Chiesa, non si accorgono di combattere l'ispiratrice più forte e la difesa più valida della civiltà occidentale e dei suoi valori di razionalità e di libertà: potrebbero accorgersene troppo tardi. I “cattolici”, lasciando sbiadire in se stessi la consapevolezza della verità posseduta e sostituendo all'ansia apostolica il puro e semplice dialogo a ogni costo, inconsciamente preparano (umanamente parlando) la propria estinzione.
La speranza è che la gravità della situazione possa a un certo momento portare a un efficace risveglio sia della ragione sia dell'antica fede.
È il nostro augurio, il nostro impegno, la nostra preghiera.
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