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lunedì 13 giugno 2016

BEATA EUSTOCHIO VITA DELLA VERGINE PADOVANA (1444-1469




MONACA PROFESSA DELL'ORDINE BENEDETTINO CHIESA DI S. PIETRO - PADOVA
Beata Eustochio (B. Lucrezia Bellini) Monaca Benedettina - Padova 1444-1469


Nel 1405, a Padova, cadde la Signoria dei Carraresi, e ad essa, per la spontanea dedizione del popolo padovano, subentrò la dominazione veneziana. Questa si dimostrò subito intelligente e feconda dopo i due secoli di tirannide dei Da Romano e dei Da Carrara, sia per quel che riguarda l'organizzazione politica e amministrativa sia per l'incremento economico e culturale.
Il territorio padovano fu suddiviso in sette podesterie e sei vicarie. Il governo di Padova fu così organizzato: ogni sedici mesi il Senato Veneziano vi mandava due senatori a sostenervi, uno la carica di podestà con potere giudiziario, l'altro la carica di capitano con poteri militari. Inoltre venivano inviati due nobili come camerlenghi con il compito di amministrare il denaro pubblico, di-pendenti dal podestà, e altri due nobili in qualità di castellani a capo del presidio militare e dipendenti dal capitano. Un Consiglio Maggiore rappresentava il governo civico di Padova che eleggeva le magistrature subalterne e i sei vicari. Esso ave-va i suoi Statuti, una specie di codici legislativi, che nel 1420 furono migliorati dal Senato Veneziano ed assunsero il nome di «Codice riformato».
Quello che però c'interessa più da vicino è la situazione religiosa della Padova quattrocentesca. Innanzi tutto il dominio veneziano portò una novità anche nel campo dell'amministrazione ecclesiastica di Padova: infatti i Vescovi di questa città che erano sempre stati eletti direttamente dal Pontefice Romano, da allora vennero eletti dal Senato della Repubblica e scelti quasi sempre fra i patrizi delle più cospicue famiglie veneziane.
è opportuno ricordare che i Patriarchi di Venezia non s'intitolarono mai alla maniera delle al-tre chiese «Per la grazia di Dio e della Sede Apostolica», ma sempre «Per la divina clemenza» ovvero «Miseratione divina»: il che sta ad indicare quel continuo atteggiamento d'insofferenza, caratteristica della Repubblica di Venezia, verso qualsiasi forma d'imposizione esterna.
Nel 1469 a Padova fu istituito il primo Monte di Pietà per opera del frate Michele di Milano, esimio predicatore, con il benefico scopo di evitare ai poveri i prestiti ad usura dei ricchi commercianti ebrei. Inoltre, sotto il dominio veneziano, nel XV sec., la città fu abbellita di notevoli costruzioni sacre come la chiesa di S. Francesco del 1420; la cupola centrale della Basilica di S. Antonio del 1424; la chiesa di S. Giovanni di Verdara del 1450, e di utili costruzioni profane come l'ospedale civico del 1420 e il palazzo del Capitano del 1428.
Poche città avevano, come Padova, un numero così grande di chiese, parrocchie, conventi, monasteri, confraternite. Si pensi che su una popolazione che ancora non raggiungeva i 30.000 abìtanti, v'erano oltre 20 conventi di frati e quasi 30 di monache, senza contare le altre chiese minori e le parrocchie che complessivamente superavano la trentina.
Nonostante questo cospicuo numero di chiese che avrebbe fatto bene sperare per la vita religiosa della città, grande era la corruzione negli ambienti ecclesiastici, come del resto in gran parte d'Europa, tant'è che da ogni dove si levavano voci di protesta che chiedevano una pronta ed efficace riforma dei costumi.
Non si dimentichi che siamo al tempo dei grandi Concilii di Costanza e di Basilea, dove già si comincia a parlare, non più sporadicamente, di riforma, e che d'altra parte, nel XV sec., si conclude il secondo grande ciclo della storia della Chiesa in una profonda crisi morale, religiosa, teologica che prelude alla crisi d'unità e d'autorità del '500. A Padova, in particolare, la rilassatezza dei costumi trovò un momento favorevole nei mesi della vacanza della Sede Vescovile, dopo la morte di Fantino Dandolo nel 1459, e della controversia che ne seguì tra il Papa Pio II Piccolomini e il Senato Veneziano per l'elezione del successore, che fu poi, di comune accordo, eletto nella persona di Iacopo II Zeno, uomo letterato e di illibati costumi. Egli, come vedremo, attuò nella sua diocesi una riforma dei costumi con polso fermo e deciso. è in questa cornice storica che si svolge la vita della Beata Eustachio cui è dedicata questa ricerca.

I

Ad occidente di Padova, presso le ultime mura, sorgeva nel XV secolo il monastero di S. Prosdocimo dell'ordine benedettino, dove la disciplina era molto rilassata. Non esistendo ancora il salutare freno della clausura, istituita dal Concilio di Trento, potevano entrarvi giorno e notte laici e secolari. Le educande e soprattutto le monache avevano un comportamento tutt'altro che religioso; tra queste ultime la vecchia Maiorina, che in gioventù aveva amato indulgere ai piaceri, ora era divenuta maestra di malcostume alle altre. Il Barozzi, uno dei biografi della Beata, senza molti eufemismi definiva quel monastero un «Lupanar». Maiorina, dunque, nel 1442 si recò sulla collina di Gemola, a tre miglia da Este (Padova), dove sorgeva la chiesa di S. Giovanni, con annesso monastero delle Vergini Benedettine che era stato edificato nel 1221 sotto il patrocinio della Beata Beatrice, figlia di Azzone VIII, marchese d'Este, e di Leonora, figlia di Tommaso III, conte di Savoia. Maiorina indusse una di queste monache, Maddalena Cavalcabò, a seguirla nel monastero di S. Prosdocimo, col pretesto di farle cambiare aria, mentre in cuor suo già l'aveva destinata al peccato.
A Padova, nell'orto del monastero di S. Prosdocimo, c'era in quel tempo la casa di un certo Bartolomeo Bellini, un giovane già ammogliato, tanto affascinante quanto corrotto. Per macchinazione di Maiorina, Maddalena incontrò costui nel chiostro: dapprima stupita, poi compiacente, la giovane monaca cedette alle sue lusinghe. Quando la sciagurata Maddalena si accorse che stava per diventare madre, terrorizzata e smarrita, per consiglio di Maiorina si finse malata onde evitare uno scandalo nel monastero di Gemola e rimase a S. Prosdocimo finché diede alla luce una bambina. Poi tornò a Gemola dove, pentita, cercò di redimersi e morì in grazia di Dio.
Così nel 1444, mentre era Vescovo di Padova Pietro VII Donato e podestà Ser Luca Tron l'Avogador de Comun, nacque Lucrezia Bellini, così battezzata per volere del padre che l'affidò ad una nutrice fino all'età di quattro anni. Poi la prese con sé, ma la matrigna la odiava, in quanto vedeva in lei la prova del peccato del marito. Il padre, istigato dalla moglie, finì anch'egli per maltrattarla tanto da bastonarla in pubblico.
Fin da piccina Lucrezia fu molto devota a S. Gerolamo e alla Vergine. Quando aveva quattro anni, si cominciò a supporre che fosse posseduta dal demonio; ma non era indemoniata, bensì ossessa; conservava cioè sempre lucida la mente. Spesso si mostrava sgarbata ed arrogante verso i familiari; ma ciò non era frutto della sua volontà, bensì delle vessazioni del demonio; comunque anche in quei momenti la sua mente si manteneva sempre raccolta in Dio.
Fu sottoposta agli esorcismi rituali e sembrò che il demonio se ne fosse andato. Pur non avendo crisi violente continuò ad essere intollerante col padre e con la matrigna e per questo veniva spesso picchiata.

II

Il padre, quando la bambina aveva sette anni, si mise in mente che ella lo volesse avvelenare e per prevenirla pensò di ucciderla lui. Secondo il parere di alcuni biografi (Cordara, Salìo, Barozzi, Salicario) era il demonio ad ispirargli tali pensieri. Ma poi, non volendo che ella morisse, il demonio gli suggerì di affidarla alle monache dello stesso monastero dov'era nata, affinché in mezzo a tanta corruzione anch'ella si perdesse.
Nel 1451, mentre era Vescovo di Padova Fantino Dandolo (1448-1459) e podestà Ser Mattio Vitturi l'Avogador de Comun, il padre affidò la bambina alle monache di S. Prosdocimo, non tanto perché le venisse data un'educazione religiosa, che certo in quel monastero non si impartiva, ma solo perché imparasse i soliti lavori femminili, avendo intenzione di farla fidanzare e poi sposare.
Tra le educande ella era la più giovane e l'unica che conducesse una vita illibata nella generale corruzione. In quell'anno la comunità si componeva di sette monache più la Badessa: le monache conducevano una vita oltremodo fatua, uscendo di frequente dal monastero, mischiandosi ai secolari e ricevendone nei chiostri; tutto ciò a grave danno del loro buon nome e con disonore del loro istituto. Ma la perfidia di quelle monache arrivò al punto, tra gli altri delitti, di accelerare col veleno la morte della Badessa, una donna di sani costumi, che proibiva loro di uscire dal monastero e di conversare, cercando di ricondurle ad una vita più religiosa e suscitando così il loro risentimento.

III

Alla morte della Badessa, il Vescovo di Padova Iacopo II Zeno (1460-1481) proibì loro di eleggerne una nuova secondo il costume dell'epoca: infatti esse avrebbero certamente eletto una di loro e la vita del monastero sarebbe continuata in quella maniera disgustosa, mentre il Vescovo voleva por fine a quello scandalo.
Monache ed educande, temendo una riforma, fuggirono presso parenti ed amici; nel monastero rimase soltanto Lucrezia. Fu aperto un processo nel 1460 col Vicario Pavini e Marco Negri, Vescovo di Cataro, e si trovò più di quanto si pensasse. Negli atti del processo si legge anche l'esame di Lucrezia, da cui risulta che certamente fu il braccio divino a sottrarla al cattivo esempio delle educatrici.
Il Vescovo allora pensò di fondare una nuova comunità a S. Prosdocimo e trasse dal monastero della Misericordia Giustina de Lazara, nobile padovana e pia monaca, ed altre suore con educande di migliori costumi, per trasferirle a S. Prosdocimo, creando Badessa la de Lazara.
Lucrezia chiese allora di vestire l'abito monacale; le altre monache però non la vedevano di buon occhio, essendo a conoscenza delle sue origini e credendo che anche lei fosse corrotta come le religiose che vivevano prima nel monastero. Il Vescovo tuttavia accettò la richiesta di Lucrezia e così il 15 gennaio 1461, dal confessore del monastero Niccolò ella fu accolta nella comunità col nome di Eustochio, in ricordo della dama romana discepola di San Girolamo. Circa l'etimologia del nome troviamo nel Salìo: «Eustochio che per alcuni così latinamente come volgarmente, non senza errore, Eustochia s'appella, è nome greco diminutivo, perciò neutro, che suonerebbe come Eustochietta», da EYCTOXAZOMAI, che significa «miro bene, faccio centro, sono buon indovino».
Durante le cerimonie, il sacerdote, dopo aver comunicato un'altra conversa, Paola, si accinse a comunicare anche Eustochio: in quel momento la Sacra Ostia cadde a terra e le monache, già prevenute, cominciarono a fare mille supposizioni sull'insignificante episodio.

IV

Da quando Eustochio aveva quattro anni fino al 30 agosto 1461, cioè ad un mese dalla festa di S. Girolamo, il demonio non si era più manifestato in maniera visibile. Per alcuni biografi invece esso rimase nascosto solo per otto mesi e dodici giorni, cioè dalla data in cui fu accettata nella comunità fino alla fine di agosto del 1461. In questo periodo ella cominciò a moltiplicare le piccole mancanze che commetteva di solito ed appariva molto agitata; il confessore del monastero, Gerolamo Salicario, che la confortava sempre, pensò bene di svelare alla Badessa e alle altre monache che Eustochio era posseduta dal demonio. Tra le monache la cosa suscitò una specie di ribellione, e nessuna le rivolgeva più la parola. Il primo ottobre 1461 (il giorno seguente la festa di S. Girolamo), nel chiostro accadde un incidente: Eustochio, spinta dal demonio, minacciava con un coltello le altre monache; il Salicario, accorso, costrinse, con degli esorcismi, lo spirito a parlare, e questo disse, per bocca di Eustochio, di essere stato inchiodato a un banco da S. Girolamo, protettore della monaca. Effettivamente, sembrava che ella non potesse muoversi di li e poiché continuava ad agitarsi pericolosamente, la legarono ad una colonna per qualche giorno. Poi si calmò; ma naturalmente era troppo peggiorata l'opinione che di lei avevano le compagne. Di lì a poco la Badessa s'ammalò e i medici non riuscivano a capire la natura del male, mentre essa continuava a peggiorare.
Inoltre si trovarono nel monastero strane «cose superstìziose», come le definisce il Cordara, e si pensò che fossero oggetti magici usati da Eustochio per avvelenare la Badessa seguendo gli insegnamenti delle sciagurate monache di prima.

V

Per mandato episcopale, in seguito a questi fatti, Eustochio venne incarcerata come fattucchiera, in attesa di essere processata e messa a morte.
Con lei venne imprigionata anche Paola, un'altra conversa, sospettata della stessa colpa solo perché era stata vista rivolgerle la parola. Paola fu poi liberata, mentre Eustochio rimase nel carcere. Le passavano soltanto pane e acqua ed ogni tre giorni veniva lasciata completamente a digiuno: i suoi carcerieri pensavano così di indurla a confessare. Intanto il popolo, tanto facile a lasciarsi influenzare dall'opinione di pochi, tumultuava fuori del monastero volendo bruciarla viva senza processo.
Ella passava tutto il suo tempo pregando per resistere alle tentazioni del demonio che le prometteva di rompere i catenacci e aprire le porte della prigione se avesse negato Cristo. Erano state scelte appositamente come sue carceriere due monache che l'avevano particolarmente in odio. A queste un giorno ella chiese il Breviario come conforto, ma le fu rifiutato. Intanto il demonio continuava a tormentarla: mentre pregava la pungeva un vespone dal quale poteva schermirsi soltanto recitando «sub tuum praesidium» e inoltre si sentivano nella cella rumori insoliti che la distraevano dalla meditazione.

VI

Il Salicario, convinto della sua innocenza, cercava di intercedere per lei presso la Badessa e gli fu infine permesso di avere un colloquio con Eustochio. Alle domande del Confessore, però, la monaca affermò davanti a tutti di essere lei la colpevole del veneficio; ciò convinse tutti tranne il Salicario il quale, supponendo che ella fosse stata costretta dal demonio a dire simili cose, volle tornare il giorno seguente a interrogarla: questa volta Eustochio negò.
Un giorno fu scoperta mentre faceva cenni a una monaca dalla finestrella della prigione: volendo che ella restasse in completa solitudine si ordinò che fosse chiuso anche quell'unico spiraglio. Il Salicario sperando ormai soltanto nell'aiuto divino per far liberare Eustochio, implorò le preghiere delle monache del monastero di S. Gerolamo, divenuto poi di S. Teresa. La difficoltà maggiore stava nel riuscire a convincere dell'innocenza di Eustochio le alte personalità patavine: tutta la città infatti si interessava della questione, e per la monaca il sapersi ritenuta capace da tutti di aver avvelenato la sua Superiora era molto demoralizzante.

VII

Dopo tre mesi di prigionia un Angelo apparve alla Badessa ordinandole di liberare Eustochio senza processo, mandandola via dal monastero; esso altri non era che il demonio, il quale sperava così finalmente che Eustochio, su ingiunzione della Superiora stessa, sarebbe caduta nella tentazione di abbandonare il monastero per ritornare nel mondo. La Badessa allora chiamò il suo fratello maggiore Francesco de Lazara, affinché facesse da intermediario.
Egli, recatosi da Eustochio, le promise uno sposo ed una buona dote qualora avesse abbandonato il monastero: infatti ella non aveva ancora pronunciato i voti e quindi poteva ancora liberamente uscire dalla comunità. Le ricordò inoltre che suo padre l'amava e poteva darle un'ottima sistemazione. Non riuscendo a convincerla, il de Lazara le propose almeno di cambiare monastero dato che qui non era ben vista dalle compagne; ma ella rifiutò decisamente e di fronte a tanta fermezza di proposito anche il de Lazara si convinse della sua innocenza e cercò insieme al Confessore di persuadere la sorella e le altre monache a scarcerarla. Queste adducevano come pretesto per non liberarla il fatto che essendo stata incarcerata per mandato episcopale, anche per liberarla era necessario un ordine del Vescovo; ma poiché questi era da tre mesi in una villa fuori città, per evitare il contagio della peste che infuriava, ciò non era possibile.
Tuttavia il Salicario garantì per lei ed Eustochio fu egualmente liberata.

VIII

Fu rinchiusa però in infermeria, una prigione più luminosa e vicina alle celle delle malate.
Un giorno il demonio, che quando parlava per sua bocca diceva di chiamarsi Mamon, toltale la benda e lo scapolare, cercò di strozzarla: le monache, richiamate dal chiasso che si sentiva nella infermeria e non ricevendo risposta alle loro invocazioni, sfondata la porta, la trovarono a terra svenuta e subito si prodigarono per rianimarla. In seguito una conversa di nome Dalmatina si ammalò di peste, o almeno così si credette sulle prime; venne affidata ad Eustochio nella speranza che anch'ella venisse contagiata.
Eustochio spesso sveniva quando serviva Dalmatina che naturalmente si spaventava; allora un'altra conversa di nome Eufrasia le offrì amicizia sino alla morte: quando la vedeva agitata, le gettava addosso la stola per cacciare il demonio e l'aiutava nella sua opera di assistenza. Dalmatina, intanto, poco a poco guarì e allora si comprese che non era stata malata di peste.
Così Eustochio fu finalmente messa in libertà ma con numerose proibizioni: non poteva recarsi nel coro nè in chiesa per i sacri uffici; non poteva andare in parlatorio nè conversare con alcuno, nemmeno con i suoi parenti. Le altre monache aveva- no l'ordine di schivarla, pena la «scomunica», vocabolo che però in questo caso indica soltanto l'espulsione dalla comunità di S. Prosdocimo. Inoltre si diceva che Eustochio fingesse di essere tormentata dal demonio per suscitare pietà.

IX

Ella ricambiava quest'odio con altrettanto amore e recitava spesso le preghiere della solennità di S. Stefano, in cui appunto è invocato l'aiuto del Santo per poter amare i propri nemici.
Per quattro anni consecutivi il demonio continuò a tormentarla con incredibile crudeltà e nei modi più impensati: la batteva con un flagello di funicelle armato di punte di rame molto aguzze, la sfregiava e le incideva profondamente le carni con un coltello, specialmente al collo, sì che grondava sangue; la trascinava per terra, la gettava violentemente al suolo, la bastonava, la legava con funi così strettamente da toglierle ogni possibilità di movimento. Il demonio non le concedeva requie: le incideva le vene, la stringeva con un irsuto cilicio, le comprimeva la testa, gliela immergeva nell'acqua gelida, la costringeva a bere grandi recipienti colmi d'acqua mista a calcina e vernice. Una volta le fece persino mangiare una spugna fritta con olio puzzolentissimo, cosa che, secondo il parere dei medici, sarebbe bastata da sola ad avvelenare una persona. E non è tutto: spesso la povera Eustochio si sentiva come bruciare tra le fiamme di un rogo; altre volte le sembrava che tante lame di rasoio le straziassero le carni.
Un giorno il demonio la portò addirittura su di un'altissima trave e, tra lo sgomento generale, minacciava di gettarla a terra se non avesse rinnegato Cristo, quando sopraggiunse il Salicario e la salvò scacciando il demone con gli esorcismi di rito. Un'altra volta la trascinò e la rinchiuse nella sala del Capitolo dove, pronunciando orribili bestemmie, la ferì a sangue; per quest'ennesima vessazione, però, il demonio fu punito da S. Gerolamo e da S. Luca, dai quali diceva di essere battuto e trattenuto. In seguito infisse ad Eustochio un coltello nel petto minacciando di colpirla al cuore, ma ella, incrollabile nella sua fede, gli rispose di inciderle sul petto dalla parte del cuore il nome JESU, ed effettivamente quando dopo la sua morte le sorelle la spogliarono per lavarla, trovarono questa parola incisa sul suo corpo.

X

Le monache, vedendola tanto soffrire, cominciarono finalmente ad averne compassione e la portarono nella Basilica di S. Giustina a visitare la tomba di S. Luca, protettore degli indemoniati: da questa visita ella trasse molto beneficio e il demone sciolse la corda che la cingeva strettamente ai fianchi e da allora non gliela rimise più.
Eustochio si confessava spesso e ogni sette giorni si comunicava.
Finalmente, all'inizio del 1465 fu ammessa al coro e il 25 marzo alla professione; già quattro mesi prima, il giorno di S. Martino (11 novembre 1464) si era votata a Dìo alla presenza del confessore, in ginocchio davanti alla Badessa e alle altre religiose, a porte chiuse. Il Salio afferma che ai suoi tempi si conservava ancora il manoscritto della patente che ella teneva in mano quando professò i voti. Essendo molto debole per le vessazioni del demonio e per le penitenze che s'imponeva, non poté nemmeno alzarsi dal letto per andare in Chiesa a ricevere il velo nero. Pertanto il 14 settembre 1467, festa dell'Esaltazione della S. Croce lo ricevette, invece che dal Vescovo, dal confessore che glielo portò a letto. Sei giorni dopo, rimessasi in forze, tanto che alle sorelle parve un miracolo, il giorno di S. Matteo (21 settembre) poté recarsi in Chiesa a ricevere ufficialmente il velo; ma senza pompe, da un semplice sacerdote, perché nella sua umiltà non volle scomodare il Vescovo.

XI

Eustochio conduceva sempre una vita esemplare, rinunciava ai più piccoli piaceri come a ricamare, attività in cui era bravissima e ad andare in parlatorio. Stava sempre sola meditando sui libri spirituali ed aveva frequenti, edificanti colloqui col confessore intorno ai problemi dell'anima. Leggeva spesso la S. Scrittura, soprattutto le Epistole di S. Paolo, le Confessioni di S. Agostino, le lettere di S. Gerolamo e di S. Bernardo e i dialoghi di S. Gregorio. Giudicando di non dover possedere nulla per sè diede alla Badessa la chiave della cassettina dove teneva le sue povere cose e quasi tutte le altre monache seguirono il suo mirabile esempio.
Nel coro scelse il posto più nascosto perché i suoi occhi non si posassero sui fedeli o sul celebrante. Serviva e obbediva a tutte le monache, pregava per loro e per i suoi genitori, e con le sue preghiere riuscì a fare in modo che suo padre morisse piamente.
In tutte le vessazioni non si lamentava mai, anzi sorrideva sempre e ringraziava il Signore. Per dimostrare quanto ella fosse virtuosa, i suoi biografi riportano un episodio significativo: le nozze di Caterìna Cornaro con Giacomo re di Cipro avvennero con tanto sfarzo che se ne parlava ovunque in città e anche nel monastero; ma Eustochio a questo proposito ebbe a dire che non avrebbe cambiato i suoi tormenti con tutte quelle gioie e quei piaceri. Intendeva così dire che preferiva soffrire nel corpo in questa vita per Cristo, piuttosto che avere gioie momentanee e passeggere.
La sua grande fede era animata dalla profonda convinzione che la vita terrena è soltanto una prova cui Dio sottopone ciascun uomo in vista del premio o del castigo eterno. Appunto per questo riteneva di essere particolarmente fortunata per quelle terribili vessazione che mettevano a dura prova la sua costanza in Cristo e che certamente avrebbero portato altri a rinnegarlo.
Non paga di quei tormenti che le procurava il demonio, s'imponeva altre penitenze da sè: ad esempio mangiava pochissimo, una sola volta al giorno, verso sera, e lo faceva quasi con schifo, perché le sembrava di cedere ai sensi nel gustare il cibo.
Non volle mai nutrirsi di carne, nemmeno quando era ammalata e debolissima. Inoltre digiunava molto spesso anche per due o tre giorni di seguito. Era tanto schiva di ogni vanità che si contentava di possedere una sola veste. Pur soffrendo d'insonnia si alzava sempre la mattina presto per recarsi in Chiesa ad ascoltare la S. Messa. Sempre per non indulgere alla benché minima gioia dei sensi, non si concedeva mai la vista di un oggetto curioso, né una vivanda gustosa o una amena passeggiata. Pur essendo tanto debole da doversi reggere col bastone a soli ventitré anni, continuava a digiunare due giorni la settimana. A causa di queste privazioni la sua bellezza era completamente sfiorita, il suo fisico debilitato, ma la sua mente restava sempre ferma in Cristo.

XII

Non si limitava però alle sole mortificazioni corporali, ma pregava anche molto. La sua devozione si rivolgeva in particolare alla Vergine Maria. Fin dai tempi in cui era stata incarcerata soleva recitare ogni giorno una corona di Salmi le cui iniziali componevano il nome di «MARIA»: «Magnificat», «Ad Dominum cum tribularer», «Retribue servo tuo», «Iudica me Deus», «Ad te levavi oculos meos», premettendovi il Salmo «Domine labia mea aperies»; oppure recitava un'altra corona di preghiere le cui iniziali formavano pure il nome della Vergine: « Missus est», «Assumpta est», «Rubrum quem viderat Mojses», «In odorem», «Ave Maria».
Altre sue preghiere preferite erano: «Ego mater pulchrae dilectationis», «Memento salutis Auctor», «Qui Rabitat», «Sub tuum praesidium», «Kjrie elejson», «Pater noster», «Interveniat pro nobis quaesumus Domine».
Era particolarmente devota di S. Gerolamo, S. Luca, S. Giuseppe, S. Anna, S. Gioacchino, S. Elisabetta, S. Giovanni Battista, S. Paolo, cioè di quei santi che più erano stati vicini alla Madonna e a Gesù, oltre S. Gerolamo e S. Luca protettori degli indemoniati e S. Paolo che onora tanto il nome di Gesù, ripetendolo spesso nelle sue Epistole.
Teneva .sempre con sé un Crocifisso: pregava dinanzi alle semplici, devote immagini della Passione, appese alle pareti della sua modestissima cella. Ad esempio, davanti all'immagine di Gesù legato alla colonna da Ponzio Pilato recitava molti «Pater» ed «Ave» con le mani legate dietro la schiena.

XIII

Nonostante ella fosse debolissima, il demonio continuava a tormentarla: ad esempio, una volta ella consegnò al confessore un flagello intriso di sangue, con cui disse di essere stata battuta. E tale flagello secondo il Salicario aveva un grande effetto sui sensuali.
Comunque Eustochio continuava nella sua vita esemplare cercando sempre di raggiungere una maggiore perfezione. Eseguiva gli ordini della badessa e del confessore senza chiedersi se fossero più o meno giusti, dato che la regola di S. Benedetto prescrive la più assoluta obbedienza; consultava i suoi superiori anche per cose di poca importanza. Ella sentiva venir meno in sé la forza vitale e comprendeva di essere ormai vicina a morire. La morte però non la spaventava, perché avrebbe potuto così riunirsi a Gesù e per prepararsi bene a questo passo decisivo, negli ultimi due anni della sua vita pregava continuamente.
Volendo restar sola nella sua meditazione, chiese ad Eufrasia di dire alle compagne, le quali per pratica pietosa volevano visitarla, che non la distraessero, ringraziandole comunque del loro buon cuore. Per vincere anche quel minimo timore che il pensiero della morte suscita in ogni uomo, ella volle essere presente nel momento del trapasso delle cinque consorelle che resero l'anima a Dio nell'ultimo anno della sua vita.
Il suo unico conforto spirituale in ore così dure in cui il demonio cercava di vincere quel fisico ormai tanto provato, era il poter conversare con il suo confessore. I biografi affermano che il demonio, per toglierle anche quell'ultima consolazione, fece sì che il Salicario provasse noia di quei colloqui e abbandonasse Eustochio ai suoi tormenti. Ma ecco che quando ella invocava l'intercessione della Vergine recitando cento «Ave», egli veniva, dicendosi spinto da una forza occulta.
Si comunicava e si confessava sempre più spesso perché la presenza di Cristo in lei rafforzasse il suo spirito. Il demonio faceva i suoi ultimi più tremendi tentativi: cercava invano di tagliarle le arterie e la squarciava. Ormai quello che usciva dalle ferite non era più sangue ma acqua sanguigna. Aumentarono anche di più le vessazioni dall'inizio dell'Avvento 1468 fino al giorno precedente la Purificazione di Maria (2 febbraio 1469), cioè fino ad undici giorni prima della morte. Poi cessò il demonio di tormentarla nel corpo, travagliando invece il suo spirito: le procurava visioni di divertimenti sfrenati, di orge e bagordi; la terrorizzava dicendole che certamente sarebbe andata all'inferno. Sperava in questo modo di perderla, suscitandole qualche cattivo pensiero. Ma Eustochio, prendendo spunto da ciò, ammoniva Eufrasia che neppure in punto di morte possiamo essere certi della nostra salvezza, poiché basta un unico cattivo pensiero per rendere vana la fatica di tutta una vita condotta santamente.

XIV

Ormai la sua vita volgeva al termine: tuttavia sette giorni prima della morte, raccogliendo le sue ultime forze, per grazia del Signore poté andare in Chiesa per prendere il Viatico e fu quella l'ultima volta che vi si recò. La domenica precedente la morte chiese di confessarsi sentendo che sarebbe stata l'ultima volta.
Pregò poi Eufrasia di non lasciarla sola quella notte, e quella sorella che, sola fra tutte, l'aveva assistita e confortata nelle sue atroci sofferenze, in quel momento supremo non l'abbandonò.
Nel silenzio della celletta quella vita si spegneva. Eufrasia vegliava accanto a lei nell'oscurità. Quand'ecco, verso mezzanotte, si udì un cupo rumore. La sorella trasalì e le parve che quel rumore fosse prodotto da qualcuno che cercava di arrampicarsi lungo il muro della cella per uscirne. Poi la celletta ripìombò nel silenzio e il chiarore argenteo dei raggi della luna che filtravano dalla finestrella fece apparire agli occhi di Eufrasia la serena bellezza di quel volto non più turbato dalla presenza del demonio.
Il nuovo giorno la trovò ancora viva, composta nella sua serenità. Eustochio volle chiamare a sè la badessa e le altre monache per dar loro l'ultimo saluto. Chiese loro perdono del male esempio e del disturbo che aveva arrecato con i suoi travagli. Poi chiuse gli occhi e senza che nessuno se ne accorgesse; come se si fosse dolcemente addormentata, spirò. Era il lunedì 13 febbraio del 1469.

XV

Immediatamente dopo la sua morte numerosi furono i prodigi che confermarono la sua santità. Nel momento in cui ella spirava il confessore s'addormentò e gli apparve in sogno la Beata rilucente di gloria che gli disse: «O quanta dolcezza, o quanta allegrezza, o quanta beatitudine!». Poi scomparve ed egli si destò con una soave dolcezza nel cuore. In quell'ora ad alcuni cittadini parve di vedere l'immagine di Eustochio che ascendeva al cielo e così, prima ancora che la notizia della sua morte fosse data ufficialmente dalle monache, l'accaduto si venne a sapere in città. Coloro che, mentre era viva, l'avevano calunniata, la piansero pentiti. Le sorelle meste si accinsero a compiere le pietose pratiche funebri: com'era d'uso ne lavarono il corpo e trovarono inciso sopra il cuore il nome JESU, segno evidente dell'amore ch'ella portava a Cristo anche nei tormenti più atroci. Dal suo corpo emanava un soave odore che non trovava riscontro in alcuno dei profumi esistenti nella terra e che venne perciò definito dai biografi «odor di Paradiso». Tale profumo perdurò per anni e anni nei pressi del sepolcro; era però percepibile non da chi vi si accostasse per curiosità, ma solo da chi vi si recasse a pregare. Dopo averla lavata, dunque, le sorelle la vestirono dell'abito monacale e la seppellirono in terra nel chiostro del monastero. Intanto si sparse dentro e fuori città la fama della santità di Eustochio, accresciuta da numerosi prodigi e si composero inni e preghiere in suo onore, sebbene il culto non fosse ancora autorizzato. Grande era l'afflusso dei fedeli al suo sepolcro soprattutto degli indemoniati che ricevevano molto beneficio e spesso guarivano grazie a queste visite. Il vescovo Iacopo Zeno volle allora sincerarsi della veridicità di questi miracoli e fece portare sul suo sepolcro una donna riconosciuta ossessa: questa, più si avvicinava alla tomba, più smaniava, tanto che nell'ultimo tratto dovette esservi trascinata a viva forza. Giuntavi urlando, vi restò come inchiodata sopra, e tentò di strangolarsi con una di quelle funicelle che servivano a quel tempo a tener strette le maniche degli abiti femminili. Ma la corda si spezzò, evidentemente per un miracolo, perché il Salicario, che si trovava presente, avendo provato poi a spezzare la parte rimanente della funicella, per quanta forza vi mettesse, non vi riuscì. Fu questa un'ennesima prova della santità di Eustochio.
Tre anni e nove mesi dopo la sua morte, moltiplicandosi i miracoli e perdurando il profumo, il vescovo accordò il permesso di riesumare i resti per porli in più degna sepoltura. La traslazione avvenne il 16 novembre 1472, alla presenza di un certo Giovanni dottore e vicario del vescovo, di Taddeo Lucrini, gentiluomo veneziano, del Salicario, di tutte le monache e di altre personalità patavine. Benché Eustochio fosse stata inumata senza cassa si ritrovarono corpo e vesti intatti. La salma fu coperta di nuove vesti e le vecchie vennero usate per farne reliquie; quindi venne deposta in una cassa di cipresso nel Capitolo del monastero. Tre anni dopo, il 14 novembre 1475 la cassa fu trasportata in chiesa e posta alla sinistra dell'altare maggiore, cioè dalla stessa parte in cui si legge il Vangelo durante la S. Messa, in un monumento di marmo, sulla cui lastra fu inciso «Beata Eustochio Paduana».
Ogni anno, il 13 febbraio, giorno in cui si celebrava l'anniversario della sua morte, il corpo veniva trasportato dietro una grata da cui lo si poteva scorgere stando in chiesa, come se fosse stato in una cappella; intorno venivano collocati dei ceri e per tutta la giornata il popolo poteva recarsi a venerarlo. Nel 1676 fu costruito un apposito altare, ove però il corpo non era sempre visibile. Poiché il popolo voleva invece poterlo sempre vedere, nel 1721, secondo quanto dice il Salìo, o nel 1720, per il Cordara, le monache fecero erigere un altare di marmo sopra il piano del quale, tra le colonne, fu posta una tela con l'effige del transito della Beata. Posto in un'arca di cristallo, il corpo era visibile dietro una grata d'oro, lunga quanto l'arca, posta tra il piano dell'altare e il dipinto.
Con decreto della Sacra Congregazione dei Riti del 22 marzo 1760, fu concessa al culto della Beata la messa «de Communi Virginum».

XVI

Dato che sin dalla sua morte moltissimi: erano stati i prodigi, la sua prima sepoltura non era stata richiusa, ma soltanto coperta con tavole. Dopo il giorno dell'Epifania del 1473 cominciò a sgorgare da tale fossa un'acqua limpidissima che venne definita non di natura terrena: dato che aveva effetti prodigiosi sugli ammalati, veniva attinta molto spesso, ma ciò nonostante saliva sempre allo stesso livello. In alcuni periodi cessava di sgorgare, ma poi tornava anche per un mese o più,. in quantità maggiore nei periodi di siccità, quasi a confermare la sua natura miracolosa. Nel vecchio monastero di S. Prosdocimo, in un chiostro terreno, vicino alla porta c'era un buco nel pavimento, circondato da una ringhiera di ferro, attraverso il quale si scendeva nella fossa, rivestita di mura come un camerino sotterraneo. Incassata nel terreno c'era una conca di marmo con cinque fori, uno per ciascun lato e uno sul fondo, da cui penetrava l'acqua, salendo fin quasi all'orlo della conca.
L'acqua miracolosa continuò a sgorgare fino al 26 aprile 1797, data in cui scomparve per riapparire il 20 gennaio 1798, quando, col sopraggiungere delle armate austriache, in Padova tornò la pace. Poi nel 1805 cessò per sempre di sgorgare. In esecuzione del decreto napoleonico del 5 aprile 1806 la chiesa di S. Prosdocimo con l'annesso monastero e quindi anche la fonte furono distrutti, e le monache si trasferirono nel monastero di San Pietro Apostolo.
Il 12 settembre 1806, alle due del mattino, il corpo della Beata fu traslato di nascosto nella Chiesa di S. Pietro; durante il tragitto scomparvero, forse rubate, due dita e una parte della mano destra della Beata. Non ostante le precauzioni perché il trasportò rimanesse segreto, vi accorse una gran folla che segui il corteo finché il corpo fu collocato nella cappella che guardava il Capitolo delle monache di S. Pietro, allora chiamata «del Rosario».
Nel chiostro adiacente fu installata la vasca dell'acqua miracolosa, sperando, ma invano, che ritornasse a sgorgare. Ma ecco che con il decreto napoleonico dell'undici maggio 1810 venne soppresso anche il monastero di S. Pietro, che divenne proprietà privata e la vasca venne riposta in uno stanzino, dietro la tomba.
Più tardi, sia il monastero che la Chiesa furono adibiti a deposito militare, e una mano ignota incise presso la tomba «12 settembre 1806, Beata Eustochio Patavina».
Nel 1834 Monsignor Scarpa fece abbellire con marmi l'altare che fungeva da sepolcro, e il Guglielmi dipinse una tela raffigurante la Beata che vince il demonio. Il 13 febbraio 1835 il corpo rimase per tutto il giorno esposto alla venerazione del pubblico in una ricca bara attorniata da molti ceri offerti dai fedeli. La sera si fece gran processione con intervento di fanciulli capitati negli orfanotrofi, di componenti le confraternite, di padri conventuali, cappuccini e di molti altri ordini. Grande fu in quell'occasione il tributo di pietà che il popolo offrì alla Beata.

Con l'autorevolissima consulenza di C. Gasparotto, P. Sambin, C. Bellinati e L. Maschietto, nel 1965 un gruppo di alunni del «Tito Livio» di Padova (Giuliana Anselmii, Pier Franco Bea-trite, Francesco Iori, Isabella Mazzucco, Anna Pagnotta, Mariarosa Salmazzo, Roberta Spagna) compi un'importante ricerca riguardante la padovana Beata Eustochio. Il lavoro venne poi affi-dato alle Suore Dorotee. Sia pure a distanza di anni, riteniamo che il lavoro meriti la pubblicazione.

E' la Beata invocata Contro ogni sorta di diaboliche tentazioni, contro le possessioni, le infestazioni, le calunnie, le ingiustizie e le prepotenze, per ottenere lume per ben conoscere e riconoscere il diavolo, e forza per superarlo.


Recita ogni giorno la seguente orazione:
Prega per noi Beata Eustochio
Affinchè siamo degni delle promesse di Cristo

Preghiamo
Onnipotente Eterno Dio, che rafforzasti la Beata Vergine Eustochio contro le potenze delle tenebre con una ammirevole virtù e una invincibile pazienza, per i suoi meriti e le sue preghiere, concedici, una volta liberati da ogni demoniaca influenza, di servirti con l'animo riposto in Te.
Per Cristo Nostro Signore, AMEN
(Decreto della Sacra Congregazione dei Riti - il 22 marzo 1760) Cinque Pater, Cinque Ave, in onore elle cinque Piaghe dei Redentore

PREGHIERA ALLA BEATA EUSTOCHIO
O potente nostra avvocata Beata Eustochio, tu fosti suscitata fra noi da Dio, per essere un luminoso modello di virtù, soprattutto di straordinaria pazienza.
La tua vita, segnata dalla Croce, ne è prova evidente. Prega ora per noi. Ottienici, ti preghiamo, la grazia di camminare sulla scia dei tuoi esempi e di considerare le tribolazioni e le sofferenze di questa vita, come un dono che ci viene dalla mano paterna di Dio, per il nostro vero bene.
Fa' che abbracciamo, a tua imitazione, con pace e fiducia, le sofferenze della nostra vita, certi di essere un giorno premiati dal Dio della pazienza e della consolazione.
Sia Egli stesso l'abbondante ricompensa, per quanti si sottomettono volentieri alle sue amabilissime disposizioni. Così sia. 

  • Padre
  •  Ave
  • Gloria
(Imprimatur Padova, 29-3-2000, Mons. Dr. Mario Morellato. Vic. Gen.)

Chi ricevesse grazie per intercessione della Beata Eustochio è pregato di ciò il Rettore della Chiesa di S. Pietro a Padova (Via S. Pietro, 127 - 35139 Padova).

Estratto dalla Rivista «Padova e la sua provincia» Stampato dalle Grafiche Erredicì Padova Novembre 1982

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